Liberare il potenziale dell’Economia Sociale

Liberare il potenziale dell’Economia Sociale

LIBERARE IL POTENZIALE DELL’ECONOMIA SOCIALE
PER LA CRESCITA IN EUROPA

Consultazione Pubblica
in occasione della Presidenza Italiana dell’Unione Europea

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Il Governo Italiano in occasione del proprio turno di presidenza dell’UE ha indetto una seconda Consultazione Pubblica tra agosto e settembre 2014, dopo la prima sulla riforma legislativa italiana del Terzo Settore a giugno, avente per oggetto l’elaborazione di politiche per liberare il potenziale dell’economia sociale.

MAG Verona ha inviato un proprio contributo, intervenendo sulle 15 questioni poste che saranno oggetto di un convegno europeo a Roma i prossimi  17 e 18 novembre.

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Di seguito lo riportiamo per esteso.


1- Così come la biodiversità è importante per l’ambiente, è sempre più evidente che la diversità delle forme di impresa gioca un ruolo fondamentale nell’economia e nella società. Qual è il contributo distintivo delle organizzazioni dell’Economia Sociale al continente europeo in termini di sviluppo economico e sociale? In che modi esse contribuiscono a soddisfare i bisogni dei cittadini europei al di là di quanto possono fare lo stato e le altre forme di impresa (ad esempio fornitura di servizi sociali o di interesse generale aggiuntivi, mobilitazione di risorse imprenditoriali aggiuntive da parte di soggetti non motivati da obiettivi lucrativi, opportunità di impiego più inclusive, recupero di imprese in difficoltà, ecc.)? Qual è la loro importanza per la crescita dei livelli di partecipazione dei cittadini alla vita economica e sociale? Questi contributi sono sufficientemente riconosciuti?

L’Economia Sociale a matrice MAG (38 anni circa di storia) muove da una originalità che, senza svalutare le funzioni dello Stato e del Mercato, prefigura e sperimenta un “oltre”. Più precisamente, i moventi dell’economia sociale a matrice Mag trovano il loro fondamento in paradigmi meta economici. Ad esempio: il desiderio di ritrovare l’amicizia con la terra e la natura, superandone l’abuso, ha generato la cooperazione agricola biologica; il desiderio di un’economia di giustizia nel mondo ha favorito la nascita del commercio equo e solidale; il sentimento di riconoscimento di dignità a persone con ferite fisiche, psichiche e ambientali ha condotto alla deistituzionalizzazione e ad invenzioni denominate di “solidarietà sociale”, e poi di cooperazione sociale. L’Economia Sociale, nel suo dispiegarsi, pone al centro la creazione di lavoro, a partire da desideri/vocazioni soggettive e di contesto e creando beni e servizi sensati per le comunità. Le imprese sociali a matrice MAG (cooperative mutualistiche, società di mutuo soccorso, fondazioni di partecipazione, associazioni, onlus), fondando sui presupposti sopra esposti e sulla capacità dei promotori e delle promotrici di arrischiarsi in un contesto comune e condiviso, ritengono che “la partecipazione sociale” sia un elemento costitutivo dell’impresa e non aggiuntivo o da conseguire volontaristicamente. Infine, muovendo da motivazioni diverse dalla lucratività e mettendo in moto una economia conviviale a partire dalla lettura di quello che c’è e semmai di migliorabile nei diversi contesti, l’Economia Sociale si propone di rispondere ai bisogni, non in una logica di domanda-offerta quanto piuttosto in un virtuoso ciclo di mutualità, relazionalità e scambio. Orientamenti che si consolidano con la riflessione continua sull’esperienza, con il pensiero, con dinamiche trasparenti con le Istituzioni e con gli altri attori della società, con l’impegno a coltivare le reti sociali.


2- La regolamentazione europea delle imprese e dei mercati (dagli standard contabili alla normativa sugli aiuti di stato) tiene sufficientemente in conto l’importanza della diversità delle forme di impresa? Le specificità delle organizzazioni dell’economia sociale sono sufficientemente riconosciute da parte dei legislatori quando questi cercano di “livellare il campo di gioco” per tutte le forme di impresa? Ci sono politiche europee che hanno effetti negativi sulle organizzazioni dell’economia sociale?

Le politiche Europee dell’oggi sembrano orientarsi sempre più a tenere conto della diversità delle  forme d’impresa, abbandonando una pratica di omologazione più diffusa in passato. Tale orientamento, che valorizza la biodiversità imprenditiva, certamente facilita l’Economia Sociale. È – soprattutto nelle traduzioni nazionali e regionali – che però persiste un rischio insito nel ricorso alla semplificazione/standardizzazione. È necessario – nelle traduzioni politiche attraverso i bandi – che sia tenuto conto dei bisogni emergenti, delle particolarità dei contesti, delle peculiarità delle nuove risposte, oltre che dei differenti soggetti coinvolti nell’Economia Sociale. Il tentativo di “livellare il campo” in realtà rischia di mettere dei paletti che penalizzano le micro imprese, in particolare quelle sociali, che per natura non sono strutturate per operare “al massimo ribasso”, ma alla migliore qualità dell’intervento e l’adeguatezza al contesto. Il problema è perciò quello della traduzione delle politiche europee nelle legislazioni nazionali e regionali, che spesso restano indietro e non riescono a stare al passo con l’evoluzione rapida delle forme e delle pratiche dell’impresa sociale. Per fare un esempio, per avviare microimprese sociali tra disoccupati o inoccupati possono bastare linee di contribuzione finanziaria di 15/20mila euro con un basso cofinanziamento; non sempre servono i 100/200mila o più euro, scala su cui generalmente sono impostati i bandi.

3- Le politiche esistenti (tra cui, ad esempio, le normative sugli appalti, il supporto alle start-up e in particolare alle start-up sociali innovative, formazione all’imprenditorialità, meccanismi di co-finanziamento ecc.) sono sufficientemente efficaci nel supportare l’economia sociale e stimolare la sua crescita? Ci sono altre politiche, al momento non previste, che dovrebbero essere prese in considerazione?

A nostro parere – lo ribadiamo – le politiche nazionali e regionali esistenti denotano una distanza dalle esperienze concrete di economia sociale per una scarsa conoscenza da parte dei legislatori delle caratteristiche dell’economia sociale stessa (parliamo per esperienza di colloqui avvilenti). Servono politiche di sostegno che non abbiano come modello unico la medio-grande impresa capitalistica. Suggeriamo, ad esempio, la dotazione di fondi “pazienti” capaci di fornire capitali “di servizio” (investimenti allo start-up e al decollo delle imprese sociali, come ad esempio potrebbero essere i 500 milioni di euro per l’Impresa Sociale promessi dal Governo Italiano nella primavera scorsa ma non ancora deliberati). I bandi nazionali o regionali, anche per la formazione continua, si rivelano inefficaci, quando non penalizzanti, per imprese micro e piccole, proprio nel campo dell’economia sociale poiché troppo ispirati alle figure mono-professionali delle medio-grandi imprese capitalistiche: le figure delle micro e piccole imprese sociali sono quasi sempre polivalenti e la loro funzione è multidimensionale. Ciò significa che un/a addetto/a presidia più aree. I bandi regionali non riconoscono tale polivalenza.

4- In alcuni paesi le differenze tra le organizzazioni dell’economia sociale e altri tipi di impresa sono rese esplicite tramite specifici vincoli alla loro attività (ad esempio il vincolo alla distribuzione degli utili, l’asset lock, ecc.), che a loro volta danno diritto a vari benefici fiscali. Idealmente quali sono i vincoli che potrebbero essere imposti alle organizzazioni dell’economia sociale per giustificare un trattamento particolare in termini di politica fiscale?

Ci sono certamente alcuni vincoli che è necessario prevedere parlando di politiche legate a benefici fiscali. 1) Non distribuibilità degli utili, o loro distribuibilità parziale: questo vincolo garantisce la non utilizzabilità della forma di impresa sociale a scopo utilitaristico e lucrativo, portando anche a valorizzare maggiormente il lavoro, e la sua remunerazione, ponendolo al centro delle scelte gestionali. 2) Non distribuibilità del patrimonio: questo vincolo garantisce che l’impresa sociale resti come capitale di una comunità, e non possa essere piegata a pratiche di scalabilità al fine di scioglierla per recuperare una remunerazione del capitale immesso, ed inoltre è sprone alla continuità dell’impresa nel tempo, e quindi anche dei servizi meritori erogati. 3) Inserimento di forme di relazione, non occasionale, con gli stakeholders, formali o informali, e di loro coinvolgimento nella governance, a garanzia dell’approccio relazionale alla comunità degli organismi dell’economia sociale e del loro radicamento locale. 4) Elementi di trasparenza nella gestione, attraverso forme di rendicontazione flessibili a seconda della complessità dell’ente. 5) Attività di utilità sociale, intesa però non in forma restrittiva o mediante elenchi ex-ante, ma mediante criteri di valutazione del beneficio per la comunità di riferimento.

5- A differenza delle società per azioni, che sono normate in modo simile in tutta Europa, le leggi che governano le diverse organizzazioni dell’economia sociale (cooperative, mutue, fondazioni, associazioni, imprese sociali, ecc.) variano in modo significativo da paese a paese. Questa varietà è una risorsa che va coltivata o sarebbe preferibile una convergenza verso definizioni e quadri normativi rispettosi delle specificità di ogni forma di impresa e condivisi a livello europeo?

A nostro parere sarebbe preferibile valorizzare proprio la diversità delle forme organizzative dell’economia sociale, le loro differenti caratteristiche e specificità (es. cooperative a mutualità prevalente, fondazioni di comunità, associazioni di promozione sociale, imprese sociali di cui al D.Lgs. 155/2006, onlus, società di mutuo soccorso). Va tenuto presente, infatti, che i soggetti dell’economia sociale sono – come dimostra la nostra esperienza – molto collegati alle caratteristiche dei territori, e quindi necessitano di un certo grado di flessibilità e adattamento che spesso le attuali e variegate forme giuridiche, e la loro autonomia statutaria, rendono anche possibile. Inoltre, lavorando spesso sul “micro” piuttosto che sul “macro”, tali organizzazioni non sentono la necessità di un quadro normativo unitario a livello comunitario, come invece avviene per le SpA. Tuttalpiù, piuttosto che una normativa unica che omologhi le diverse forme nazionali, regionali o locali, può essere utile studiare una metatipologia di ente, ampio e includente, che stia a monte delle diverse traduzioni specifiche, e che permetta il reciproco riconoscimento e l’indicazione di un campo comune alle diverse organizzazioni quando si parla di politiche comunitarie rivolte al sostegno dell’economia sociale. Le radici di tale metatipologia si possono trovare nelle definizioni di Impresa Sociale che la stessa UE ha fornito in molti documenti, riconoscendo anche la ricchezza della “biodiversità” generata dalle diverse e variegate forme giuridiche nazionali.

6 – In che modo istituzioni europee, Stati membri e regioni possono integrare con efficacia i soggetti dell’economia sociale nel loro processo di riforma strutturale, così da far leva sul potenziale di queste organizzazioni a fini di sviluppo economico e sociale?

Siamo convinti/e che più che di integrazione, che rimanda ad un “assorbimento” all’interno di processi già definiti, sarebbe corretto parlare di interazione. Le Istituzioni ai diversi livelli dovrebbero porsi in dialogo con i soggetti dell’Economia Sociale in una logica di mutuo ascolto, coprogettazione e proattività, costruendo partenariati innovativi che non si limitino ad un confronto in fase consultiva ma che permettano poi di incidere nella fase di generazione delle politiche e di implementazione degli interventi. I legislatori, poi, dovrebbero cercare di accompagnare l’evoluzione e l’innovazione, organizzativa e operativa, di tali enti, e non cercare di normarle strettamente: il rischio è che la legge, anziché fornire un’impalcatura a sostegno del potenziale delle organizzazioni dell’economia sociale, diventi una gabbia alla loro generatività, limitando di fatto la loro capacità di costruire sviluppo economico e sociale.

7 – Che ruolo possono svolgere la conoscenza statistica e l’attività di ricerca nel favorire la visibilità dell’economia sociale? Gli istituti nazionali di statistica dovrebbero essere più coinvolti nella produzione di dati su queste organizzazioni? In particolare, in che modo potrebbero contribuire a mettere in luce la rilevanza economica di ogni specifica forma organizzativa appartenente all’economia sociale? Le università europee dovrebbero soddisfare un bisogno di ricerca e formazione più specializzato sui temi dell’economia sociale?

Come Mag riteniamo che sia necessario svolgere indagini maggiormente accurate e più ravvicinate sull’economia sociale, che oggi, nonostante (come è noto da dati diffusi dalla stessa Commissione Europea in occasione della Social Business Initiative) occupi il 4,5% dei lavoratori/trici generando ben il 10% del PIL europeo, è decisamente in ombra anche rispetto all’analisi che viene svolta nei confronti delle altre imprese. Un esempio, che riguarda l’Italia, è la frequenza soltanto decennale con cui si monitora ufficialmente il non-profit (censimento Istat), quando i dati relativi alle altre forme di economia sono forniti con cadenza trimestrale. Per noi è necessario quindi che gli istituti nazionali ed europei di statistica adottino pratiche di monitoraggio periodico delle imprese sociali anche elaborando indicatori specifici, non solo economici, ma anche di impatto sociale e ambientale. Riguardo l’aspetto della rilevanza economica, che pure non è il solo elemento da considerare, andrebbero messi in luce, oltre alla generazione di PIL in termini tradizionali, anche l’apporto occupazionale e, soprattutto, la ricchezza prodotta e distribuita alla comunità, anche in termini di “risparmio” per la società grazie all’attutimento dei c.d. “costi sociali”. Le Università statali potrebbero essere coinvolte in questo processo, introducendo lo studio dell’economia sociale nei curricola ordinari. Parallelamente, andrebbero maggiormente valorizzati gli Istituti di Ricerca d’eccellenza e le Libere Istituzioni a matrice femminile. Un esempio virtuoso in tal senso è la collaborazione tra Euricse (Università di Trento) e Iris Network sulla connessione tra ricerca accademica, ricerca sul campo e rilevazione statistica periodica. Mag coltiva da oltre 20 anni relazioni con Libere Università, Comunità Filosofiche Femminili, reti di Città Vicine che, senza alcun sostegno pubblico, offrono uno sguardo sulla realtà a partire dalla differenza dell’essere donne e uomini, potenziano le singolarità e le relazioni per ricostruire legami sociali e una nuova e necessaria civiltà dei rapporti.

8 – I documenti dell’ Unione europea in materia di economia sociale pongono spesso enfasi su due caratteristiche di queste organizzazioni: il radicamento territoriale e la necessità che le loro attività siano riproducibili su scala più ampia. Come riconciliare questi aspetti?

Le organizzazioni dell’Economia Sociale sono caratterizzate da un forte radicamento territoriale che ne costituisce anche parte importante della ricchezza. La vicinanza con la comunità e la forte connessione relazionale permettono infatti alle realtà d’Economia Sociale di contribuire efficacemente alla crescita sociale, culturale ed economica dei territori promuovendo integrazione e partecipazione e mantenendo un’alta qualità degli interventi. Le realtà di Economia Sociale sono idonee alla rilocalizzazione e riterritorializzazione delle economie e della rivali dazione dei lavori manuali anche di antica tradizione. L’economia sociale, quindi, basa sulla soggettività di chi vi opera e dell’originalità delle organizzazioni che la compongono. Di qui la difficoltà di parlare di riproducibilità su scala molto ampia, qualora con questo termine si intenda tanto un aumento di dimensione scalare senza adattamenti, quanto una replicabilità di modello in altro contesto. Conciliare i due aspetti proposti, invece, sembra possibile secondo altre vie. Da un lato, nel caso della trasferibilità delle migliori pratiche, ricercando un adattamento del modello al nuovo contesto piuttosto che una riproduzione dello stesso, e puntando alla trasmissione delle competenze e dell’ispirazione tra operatori/trici. Dall’altro, nel caso della necessità di aumento di dimensioni, si possono costruire strutture composte di cellule di micro, piccola o media dimensione collegate in una dimensione reticolare realmente operativa che, tramite un coordinamento di secondo livello, permetta economie di scala e la circolazione delle innovazioni. Il rischio, a fissarsi sulle forme di riproducibilità, è quello dell’omologazione che tramite la standardizzazione delle pratiche riduce la biodiversità dell’economia sociale autoimprenditiva scollando le imprese sociali dai contesti e soprattutto, via via, dalle proprie compagini sociali.

9 – Le organizzazioni dell’ economia sociale contano su una lunga tradizione di collaborazione e partenariato con il settore pubblico, e questa relazione si è venuta costantemente modificando nel corso del tempo. Quali sono le linee lungo le quali sviluppare ulteriormente questo rapporto nel futuro, rafforzandolo?

Per Mag Verona la strada maestra per rafforzare e rendere davvero proficuo il rapporto tra il settore pubblico e le organizzazioni dell’Economia Sociale è quella della coprogettazione e della sussidiarietà (ci riferiamo alle best practicies di Cittadinanza Attiva e di Labsus condotto da G. Arena). La concertazione non solo consultiva ma anche operativa nella costruzione degli interventi e delle politiche è certamente la base su cui costruire un solido partenariato con le istituzioni. L’obiettivo, quindi, dovrebbe essere quello di agire in piena cooperazione tra pubblico e privato dell’economia sociale, non relegando quest’ultima ad un ruolo di tampone per quegli ambiti nei quali lo Stato si deresponsabilizza. Bisogna uscire, insomma, da una logica di delega e di assegnazione di servizi, che configura l’Economia Sociale come ancillare rispetto alla pubblica amministrazione, puntando piuttosto ad un coprotagonismo che metta in relazione tutti i poli della società: istituzioni pubbliche (es. Camere di Commercio, Parchi Tecnologici) enti dell’economia sociale, imprese for-profit e singoli/e cittadini/e. Coloro che presidiano gli enti pubblici, quindi, dovrebbero porsi maggiormente in ascolto sapendo leggere gli atti di vera responsabilità delle organizzazioni dell’economia sociale, per co-costruirvi assieme le politiche, ma anche allocare risorse per gli interventi possibili, studiando se necessario forme di semplificazione per l’affidamento di taluni interventi. Infine, le istituzioni dovrebbero trovare il modo di favorire, e mettere a valore, le iniziative della cittadinanza, cercando le strade anche quando il nuovo cozza con normative non al passo dei tempi, ponendosi in un ruolo di interlocutore piuttosto che di gendarme. Si vuole inoltre sottolineare che un punto di sofferenza in questa relazione si rileva spesso nel passaggio dai programmi comunitari ai piani operativi regionali la cui gestione spesso non riesce a tenere conto – come precisato in precedenti paragrafi – delle peculiarità dell’impresa sociale rendendo difficilmente attingibili i fondi FSE e FESR.

10 – Come si caratterizza il rapporto tra organizzazioni dell’ economia sociale e imprese for profit? Quali sono gli esempi più interessanti di collaborazione tra organizzazioni dell’ economia sociale e imprese di capitali, al fine di conseguire obiettivi comuni?

Le organizzazioni dell’economia sociale possono contribuire a coscientizzare le imprese for-profit che – in questo tempo di crisi epocale – sempre più stanno assumendo elementi di responsabilità sociale e di orientamento al bene comune nelle loro attività, abbandonando via via una pura logica di profitto. La costruzione di una coscienza civica condivisa tra for-profit e non-profit, basata su una relazione dialogica, può dare vita a buone pratiche cooperative nella ideazione e gestione di percorsi comuni (Mag sperimenterà nei prossimi mesi due percorsi formativi sui nuclei sopra indicati). In particolare, la collaborazione tra aziende lucrative e enti non-profit, soprattutto se favorita e sostenuta anche dalle istituzioni, può dare vita a virtuosi esempi di welfare di comunità che, a partire dall’ambiente aziendale, possono riflettersi su un intero territorio e viceversa. Può anche instaurarsi un rapporto mutualistico tra le due tipologie di enti: se da un lato la grande impresa lucrativa ha spesso i mezzi per mettere in atto ricerche innovative e implementare nuove sperimentazioni, anche sul lato dell’efficentamento, dall’altro le imprese sociali hanno le competenze per declinare questi elementi in una logica di sostenibilità e di integrazione socio-culturale. Sono quindi fortemente auspicabili forme di partenariato cooperativo tra le une e le altre, arrivando ad investire su forme di co-housing e coworking di cui ci sono sempre più diffusi apprezzamenti e solitarie sperimentazioni.

11 – Quando si parla di imprese sociali, la distinzione tra organizzazioni dell’economia sociale e imprese for profit non è stata sempre chiara. Nella dichiarazione di Strasburgo si afferma che solo le imprese che hanno un obiettivo sociale dovrebbero essere considerate “imprese sociale”. Questa affermazione è sufficiente o ha bisogno di ulteriori chiarimenti?

Sicuramente la dichiarazione di Strasburgo può costituire la base della definizione di Impresa Sociale nell’affermare che la caratteristica principale è quella di perseguire irrinunciabilmente un obiettivo sociale non scisso dalla sostenibilità economica. Va però sottolineato che, a sua volta, la delineazione degli scopi e delle attività siano sociali difficilmente è rinchiudibile in una lista definita ex-ante, come segnalato anche in precedenza, ma andrebbe valutata, in una ottica di apertura, di volta in volta sulla base da un lato degli impatti sulla comunità nella risposta a bisogni percepiti e nella creazione di inclusione, dall’altro sulla base delle motivazioni reali che mettono in moto l’impresa. L’Impresa Sociale, insomma, partendo dai desideri di un gruppo identificato di donne e uomini opera in vista dell’interesse generale. Ci sono però altri elementi non trascurabili. Uno di questi è la non lucratività, che si declina nella scelta di non distribuire, in tutto o in parte, utili e patrimonio, elemento che garantisce l’impossibilità di un uso spregiudicato di tali forme a scopi utilitaristici. Un altro elemento fondamentale è la relazionalità: l’impresa sociale non può operare in modo isolato, ma diventa “vera” se coltiva un costante dialogo con la comunità di riferimento e l’insieme di tutti i propri stakeholders, passando attraverso inevitabili conflitti e contraddizioni.

12 – La questione dell’innovazione sociale ha acquisito notevole importanza negli ultimi anni. I documenti ufficiali dell’UE contengono diversi riferimenti al ruolo che le organizzazioni dell’economia sociale svolgono nella produzione di innovazione sociale. Quali sono gli elementi che caratterizzano i contributi specifici delle organizzazioni dell’economia sociale ai processi di innovazione sociale?

Le organizzazioni dell’economia sociale – a matrice Mag – sono naturalmente soggetti di innovazione sociale, e questo grazie proprio alle motivazioni, allo stile e all’approccio che esse immettono nel proprio quotidiano agire. Lavorando sulla base dell’orientamento alla socialità e non al profitto rifondano il senso dell’agire economico stesso. Detto in altri termini, esse integrano nell’economia l’attenzione alla crescita umana, alla costruzione di benessere collettivo, generando “altra” ricchezza e rendendosi idonee alla cura dei Beni Comuni. Dentro queste prospettive la loro azione può andare oltre e ricercare soluzioni sempre aggiornate che sappiano rispondere in modo sempre più efficiente, efficace ed adeguato ai nuovi bisogni che nascono e che mutano. Di qui il contributo, fondamentale, allo sviluppo dell’innovazione sociale: dato che le motivazioni di partenza spingono a ricercare proprio la massimizzazione dell’impatto sociale, la ricerca del nuovo viene indirizzata in tal senso. Va inoltre tenuto presente che le organizzazioni dell’economia sociale più di altre mettono in moto direttamente i cittadini e le cittadine, e pertanto meglio riescono a monitorare l’evoluzione delle esigenze e a qualificare le risposte.

13 – Se l’impatto sociale è un elemento chiave per distinguere le imprese sociali dalle altre imprese, quali indicatori e metodologie vanno utilizzate per misurarlo? La misurazione e la rendicontazione di impatto sociale da parte delle organizzazioni dell’economia sociale dovrebbe essere rese obbligatorie? Quali standard dovrebbero essere eventualmente applicati? Quel è il ruolo degli istituti di ricerca e degli uffici nazionali di statistica in questo contesto?

È certamente opportuno sviluppare e affinare indicatori e metodologie per misurare l’impatto sociale dell’Economia Sociale, e questo tenendo conto delle specificità di tali organizzazioni. Gli indicatori sviluppati però dovrebbero essere il più possibile qualitativi, e le metodologie di rilevazione quanto più possibile relazionali e narrative. È opportuno condurre anche una riflessione sulla “responsabilità sociale” delle imprese sociali in itinere, ovvero sulla consapevolezza che esistono elementi, come ad esempio il trattamento di lavoratori/trici, le questioni ambientali, i rapporti con i fornitori e così via, che vanno oltre all’impatto sociale della propria mission istituzionali, e ne va tenuto conto nella logica di ricercare, e rendicontare, una responsabilità globale (formata di r. di missione, r. sociale e r. economico-finanziaria). La rendicontazione in tal senso è una pratica che va di sicuro incentivata, favorita e diffusa, anche eventualmente rendendola obbligatoria almeno per le realtà più complesse o prevedendo livelli diversi a seconda della complessità; questo perché essa garantisce, oltre alla trasparenza, una riflessione sul proprio operato che sostiene una gestione e programmazione volte al continuo miglioramento. A nostro modo di vedere è necessario trovare le forme per garantire una confrontabilità dei dati, senza però ricorrere ad una eccessiva standardizzazione: ancora una volta, infatti, è necessario riconoscere la “biodiversità”, ovvero le specificità e l’originalità di ogni ente, che deriva da una necessità di adattamento ai moventi soggettivi, ai contesti, e alle mission. Biodiversità autoimprenditiva che è una delle grandi ricchezze di questo mondo e di questo presente. Gli indicatori e le metodologie devono quindi essere anche sufficientemente flessibili per rispondere a questa esigenza. La sfida è certo complessa, per cui è certamente opportuno un contributo nell’elaborazione da parte di istituti di ricerca e di statistica, tenendo però conto della necessità di partire dall’esperienza reale e quindi dall’analisi delle attività svolte dalle diverse imprese sociali.

14 – Quanto sono importanti gli strumenti finanziari per sostenere la crescita delle organizzazioni dell’economia sociale? Quali sono gli strumenti finanziari e i soggetti intermediari più adatti a soddisfare le esigenze di organizzazioni che non mirano a massimizzare i profitti? Di quale formazione e preparazione specifica ha bisogno questo settore per gestire investimenti finanziari? Qual è il ruolo di soggetti intermediari come i fondi etici di investimento, le banche etiche o di solidarietà, le banche cooperative, o di strumenti come gli impact bond?

Gli strumenti finanziari, pur non essendo la prima preoccupazione delle organizzazioni dell’economia sociale, sono ugualmente importanti. Si tratta di strumenti che però devono posizionarsi senza la pretesa di assumere centralità. Vanno favoriti e valorizzati – secondo Mag –  gli strumenti che fondano nella microfinanza e nella finanza etica. In particolare, forme mutualistiche di azionariato popolare diffuso, pratiche di microcredito e così via, che però purtroppo talvolta trovano difficoltà a muoversi all’interno della normativa in materia finanziaria che ha come modello e “peso” i grandi e tradizionali istituti di credito. Un esempio in tal senso è fornito dal nuovo art. 111 del TUB sul microcredito che però da 3 anni è in attesa di decreti attuativi. Certamente i fondi etici di investimento, le banche etiche, le banche cooperative sono intermediari importanti, ma non vanno dimenticati i provider di microcredito, le Mutue per l’autogestione di finanza etica e solidale, che assolvono ad una funzione importante di sviluppo locale, a partire da processi di auto-organizzazione. È quindi necessario alleggerire la normativa finanziaria, per le pratiche che nascono dal basso e che operano per lo più a livello locale. In particolare, si invita a considerare il disegno di legge per favorire il microcredito presentato in parlamento anche grazie alla collaborazione con RITMI (la rete italiana di microfinanza). Con riferimento agli strumenti pubblici di finanza agevolata, si rileva la necessità di prevedere l’ammissibilità, oltre ai beni ammortizzabili, anche di alcune spese correnti dei primi anni, tenuto conto che molto spesso le imprese sociali nel campo dei servizi hanno uno scarso bisogno di investimenti a fronte di un maggiore fabbisogno di capitali d’esercizio configurandosi come labour intensive piuttosto che capital intensive.

15 – Che ruolo possono svolgere le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) nello sviluppo e nella fornitura di nuovi servizi di interesse generale da parte delle organizzazioni dell’economia sociale? Per esempio, come possono le ICT favorire la partecipazione dei soci? Come possono facilitare un consumo più consapevole e responsabile, ovvero (come può) contribuire alle decisioni di risparmio (ad esempio, mediante applicazioni che forniscono informazioni ai consumatori sulle caratteristiche sociali e ambientali dei prodotti, oppure piattaforme web multistakeholder, web-communicated ESG rating)?

Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono sicuramente fornire apporti preziosi. Possono in primo luogo facilitare la comunicazione, dando maggiore visibilità alle organizzazioni dell’economia sociale facilitando la diffusione delle informazione e la conseguente trasparenza. Strumenti di comunicazione, inoltre, possono facilitare la partecipazione dei/lle soci/ie, dei/lle lavoratori/trici e dei/lle utenti fornendo in tempo reale le informazioni, permettendo la progettazione condivisa anche a distanza e raccogliendo risposte a consultazioni e suggerimenti. Sul lato dei servizi e beni di utilità sociale proposti, l’ICT può favorire miglioramenti sia di processo che di prodotto garantendo interventi a maggior impatto sociale. Strumenti informatici, inoltre, possono anche aiutare a calcolare indicatori sociali tali da aiutare l’orientamento ad un approccio consapevole all’acquisto di beni e servizi. Va però evitato il rischio di ritenere che l’unica forma di innovazione possibile sia quella digitale o comunque tecnologica, pregiudizio pericoloso in ogni campo ma particolarmente in quello dell’economia sociale nel quale un valore fondante hanno la sensibilità, la relazionalità ed il contatto umano, che non possono essere bypassati.

Mag Verona – Ufficio Studi
Maria Teresa Giacomazzi, Loredana Aldegheri, Paolo Dagazzini
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